IL MUSEO DELLA BASILICA
L’istituzione di un museo presso l’oratorio delle Grazie risale al 1864. In quell’anno furono raccolti presso la sacrestia dell’oratorio della Grazie i più pregevoli dipinti delle chiese cittadine. La concentrazione delle principali opere d’arte presso l’oratorio ha impedito la dispersione, altrimenti probabile, del patrimonio artistico cittadino.
Il museo fu completamente riordinato nel 1959 a cura di Luciano Berti che ne ha pubblicato il primo catalogo.
Il nuovo allestimento
In anni più recenti i numerosi restauri agli edifici monumentali di San Giovanni e dintorni, curati dalla Soprintendenza di Arezzo, hanno interessato direttamente il museo della Basilica e le opere d’arte in esso custodite. Alcune opere del museo sono state riportate nella loro collocazione originaria: é il caso del trittico di Giovanni del Biondo risistemato dietro l’altar maggiore della chiesa di S. Lorenzo. Per ragioni di conservazione e di sicurezza, viceversa, altri dipinti sono stati ricoverati negli ambienti del museo, primo fra tutti l’Annunciazione del Beato Angelico dal convento di Montecarlo.
Il museo della Basilica, riaperto nel 1990, espone attualmente 14 dipinti. 11 appartengono alla civiltà artistica del Quattrocento fiorentino. La raccolta del museo evidenzia quindi immediatamente un tratto caratteristico della storia artistica del centro valdarnese, lo stretto rapporto con la civiltà figurativa fiorentina.
SALA I
Provenienza
Proviene dalla chiesa del convento francescano di Montecarlo. Originariamente era collocata sul secondo altare a destra. In seguito al rinnovamento dell’altare, nel 1630 la tavola fu ritagliata ai lati e alterata da pesanti ridipinture. L’altare seicentesco fu poi smantellato agli inizi di questo secolo. Per l’occasione al dipinto furono restituite le originarie proporzioni originarie aggiungendo nuovamente le due sezioni laterali e ricostruendo una cornice “all’antica” ispirata alla cornice dell’Annunciazione dell’Angelico dal S. Domenico di Cortona.
L’evento sacro é ambientato nell’interno di un loggiato. La cornice si sostituisce alle colonne anteriori del portico suddividendo la tavola negli scomparti simmetrici di una sorta di dittico. Lo scomparto di sinistra é scandito da due arcate che si aprono verso un giardino fiorito mentre in quello di destra la parete é ornata da specchiature marmoree. Su di esse si leggono in trasparenza due arcate, probabile riaffioramento di una precedente diversa articolazione dello spazio, con la loggia aperta anche sul lato destro. Le pareti sono coronate da un fregio all’antica di girali d’acanto su fondo rosato mentre il soffitto é ornato da un “finto” cielo notturno stellato. Una porta immette nella semplice camera della Vergine, con la piccola finestra chiusa da una grata e una panca in legno sfiorata dalla luce.
La Vergine é raffigurata, in atto di ricevere lo Spirito Santo, con le mani incrociate sul grembo. L’angelo si china, con le mani similmente incrociate al petto, di fronte alla madre del Cristo. La colomba dello Spirito Santo si staglia sul soffitto stellato entro un globo luminoso.
La cacciata dal paradiso terrestre é rievocata in alto a sinistra, sullo sfondo del giardino fiorito: questo si rivela essere il giardino dell’Eden da cui l’umanità peccatrice é cacciata in attesa della nascita del salvatore, preannunciata dall’evento narrato sulla tavola.
In alto, al di sopra degli archi della cornice, il profeta Isaia, quasi avvolto nel cartiglio, prefigura la venuta del Cristo.
Nella predella, le cinque storiette ripercorrono brevemente la vita della Vergine.
Il recente restauro della tavola ne ha confermato la completa autografia angelichiana e ha evidenziato l’altissima qualità dell’opera. L’Annunciazione di Montecarlo, per gli evidenti riferimenti all’opera di Gentile da Fabriano nella delicata fioritura del giardino e per i marcati goticismi nella resa del panneggio, appare databile intorno al 1430 E’ dunque anteriore di qualche anno alla nota Annunciazione cortonese. Rispetto a questa, marcatamente diversa risulta l’articolazione spaziale: il portico, invece di essere raffigurato dall’esterno e leggermente spostato a destra, occupa simmetricamente la superficie intera della tavola e sembra introdurre lo sguardo dello spettatore fin nel cuore del loggiato, per un contatto più intimo e meno oggettivato con l’evento narrato.
SALA II
Raccoglie un nutrito gruppo di tavole di scuola fiorentina del Quattrocento, provenienti per lo più dalla chiesa di S. Lorenzo. Si tratta indubbiamente di opere di maestri minori che ben illustrano il retroterra culturale ricco e complesso nell’ambito del quale nascono e prolificano le opere cosiddette maggiori. La sala documenta, con una certa completezza, l’attività in loco di maestri fiorentini, come Paolo Schiavo, molto attivi nel contado e nel Valdarno in particolare, capaci di ben soddisfare il gusto attardato e un po’ provinciale delle committenze locali. Alcune tavole documentano la presenza attiva in città di pittori sangiovannesi: Mariotto di Cristofano, cognato di Masaccio, e Giovanni di Ser Giovanni detto lo Scheggia, fratello minore di Masaccio.
MARIOTTO DI NARDO: LA TRINITA’ FRA LA VERGINE E S. MARIA MADDALENA CON I SANTI GIACOMO APOSTOLO, GIOVANNI BATTISTA, GIOVANNI EVANGELISTA E ANTONIO ABATE
Il trittico proviene dalla Pieve di San Giovanni Battista. Fu attribuito a Mariotto di Nardo dal Salmi (1913) che ricorda il pannello centrale sul secondo altare di destra della pieve e i due laterali, in alto, sopra la porta di ingresso.
Mariotto di Nardo, figlio di uno scalpellino, é attivo in Firenze e in altri centri dell’Italia centrale a partire dagli anni ’80 del Trecento e sino al 1424. E’ l’esponente più rappresentativo di quella corrente della pittura fiorentina tardo trecentesca che mira a recuperare la tradizione giottesca della 4prima metà del Trecento. Si tratta, nei fatti, di un neogiottismo, di decisiva importanza per la genesi della pittura del Quattrocento.
Nel trittico sangiovannese la saldezza plastica e volumetrica delle figure, l’essenzialità della composizione, quasi arcaizzante, la monumentale modellazione dei panneggi che ricadono giù in pieghe pesanti segnalano un consapevole recupero degli ideali artistici giotteschi. Il dipinto, databile al 1400-1405, si rivela del tutto estraneo alla pittura vivace ed estrosa venata di influenze internazionali che si andava in quegli anni affermando a Firenze.
La tavola proviene dalla chiesa di S. Lucia e si segnala per la rara iconografia di origine nordica. Vi é raffigurato l’atto di intercessione della Vergine presso il figlio risorto, dal cui costato sgorga il Santo Sangue che riempie il calice con l’ostia. Il soggetto, di intonazione mistica, é molto raro a Firenze ed é diffuso quasi esclusivamente nel nord dell’Europa.
Mariotto si é servito altre volte di iconografie di origine nordica, come nell’affresco nel S. Miniato di Firenze con il Feiertagschristus (Cristo ferito dagli strumenti di lavoro, ammonizione a non lavorare di domenica).
La tavola sangiovannese é databile al 1420-1425. Si segnala per il modellato attento e fine, sebbene un po’ rigido, delle figure, in bilico fra i modi tradizionali della pittura tardotrecentesca e un nuovo realismo classicheggiante.
PAOLO DI STEFANO BADALONI DETTO PAOLO SCHIAVO: CORO DI ANGELI MUSICANTI; S. ANSANO; S. BIAGIO
Le cinque tavole provengono da un unico complesso smembrato, un tabernacolo chiuso da sportelli dipinti nella chiesa di S. Lorenzo. Nel 1754 la Madonna col Bambino é documentata sull’altare di S. Biagio mentre le quattro tavolette, rimosse, risultano depositate in sacrestia. Originariamente la Madonna col Bambino era inserita fra i due Cori Angelici mentre non é ben chiara la collocazione dei Santi.
Non sorprende la collaborazione fra il fratello di Masaccio e Paolo Schiavo, attivo spesso in Valdarno. I due maestri lavorano, fra l’altro, fianco a fianco, seppur in momenti diversi, nella decorazione ad affresco dell’interno della Badia di S. Salvatore a Soffena presso Castelfranco.
Paolo Schiavo, di origini forse slave, nasce nel 1397 e s’immatricola all’Arte dei Medici e Speziali nel 1429. Formatosi nell’ambiente camoldolese nel quale opera Lorenzo Monaco si avvicina successivamente alla bottega di Masolino guardando con interesse alla pittura di Masaccio e di Domenico Veneziano.
Le tre tavole sangiovannesi di Paolo Schiavo sono generalmente datate dalla critica al 1435-1440 sulla base di precisi confronti con opere coeve del maestro per le quali disponiamo di una più sicura documentazione.
Le tavole dello Scheggia e in modo particolare la Madonna col Bambino denunciano una dipendenza chiara dalla Madonna del Tabernacolo dei Linaiuoli portata a termine dal Beato Angelico fra il 1433 e il 1434. La presa salda e potente delle mani della Madonna é un omaggio dello Scheggia al fratello, e si ispira alla figura della Vergine nella Sant’Anna Metterza dipinta da Masaccio in collaborazione con Masolino. Il fondale con roseto é ricalcato verosimilmente su esempi di Domenico Veneziano che consentono di spostare la datazione del complesso delle tavole del tabernacolo agli ultimi anni del quarto decennio del secolo.
Ospita opere del primo seicento fiorentino. Tra esse, i due oli su tela raffiguranti S. Lorenzo e San Giovanni Battista di Gregorio Pagani, datati 1600 e provenienti dall’altar maggiore della Basilica (ai lati dell’immagine trecentesca della Madonna). Di particolare importanza é l’olio su tela di Giovanni da San Giovanni raffigurante la Decollazione del Battista.
La tela é firmata e datata 1620. Fu commissionata al pittore dai confratelli della compagnia di San Giovanni Decollato, fondata nel 1543 nella chiesa di S. Lorenzo, per l’altare della cappella sociale. Nel 1729 la tela, trasportata nell’oratorio delle Grazie, prende il posto d’onore sull’altare centrale della cappella costruita su disegno del Bettini fra il 1720 e il 1725.
Il dipinto si ispira chiaramente alla grande tela di analogo soggetto dipinta dal Caravaggio per la cattedrale della Valletta a Malta nel 1608. La finestra con grata é una citazione testuale del grande capolavoro caravaggesco.
I tratti tipici della pittura fiorentina del primo Seicento, ancora in bilico fra novità barocche e attardamenti manieristici, emergono nella figura del carnefice, un saggio tutto fiorentino di pittura caricata e grottesca al limite dello scherzoso ispirata agli esempi del Callot e di Filippo Napoletano, artisti coi quali il Mannozzi era in stretto contatto alla corte medicea.